La diagnosi segreta
J. è una giovane donna bangladese, sui 30 anni, non parla italiano e se non fosse per il marito che prova a fare da interprete per noi sarebbe impossibile comunicare.
Nella storia clinica nulla di rilevante: tre gravidanze e nessuna patologia degna di nota.
Viene allo Sportello Sanitario accompagnata dal marito e dal figlio più piccolo a causa di intensi dolori addominali. A dire la verità, anche capire il motivo è stato arduo: dicono solo che “le fa male la cicatrice da dove è nato il bambino”.
Dopo un iniziale giro di domande e risposte da cui non si capisce granché, la visitiamo: la ferita è ben cicatrizzata, non c’è segno di infezione, sembra strano che le faccia male.
Mentre eseguo la palpazione dell’addome devo insistere affinché mi faccia capire dove sente dolore: spesso, infatti, i nostri pazienti stranieri, forse per un eccesso di gentilezza o di timidezza, restano in silenzio persino sotto tortura! Lei cerca di nascondere le reazioni di difesa, e devo ripetere più volte “Ti fa male qui? – Dille che deve farmi capire dove fa male!”.
Ha un intenso mal di pancia e devo sapere come va di corpo, ma il marito mi risponde senza nemmeno domandare che J. va “normale”. Su mia insistenza, chiede anche alla moglie, che diventa viola e, in totale imbarazzo, sussurra “sì, normale”. Ma cosa significa normale?
Provo ad usare delle immagini, che però risultano incomprensibili. Ho sul tavolo una bottiglietta d’acqua e delle teste di papavero essiccate: “è più così – chiedo, agitando la bottiglia – o più così?” – battendo delicatamente una testa d’oppio sulla scrivania. Una scena che a raccontarla può far sorridere, ma che nella sua comicità fornisce la misura della difficoltà di comunicazione e della mole di pazienza e immaginazione necessarie.
J. appare confusa e un po’ rallentata, ma penso sia legato alla vergogna di descrivermi un aspetto così intimo di sé di fronte al marito. Riferisce adesso un alvo che di “normale” non ha niente.
Il primo approccio terapeutico riguarda dei suggerimenti alimentari e una medicina, con l’invito a tornare in ambulatorio se il problema persiste.
Dopo due settimane il dolore non è migliorato, per cui prescriviamo delle analisi del sangue. Quando ci portano i risultati, non esagero nel dire che io e la dott.ssa D’Angelo sbianchiamo e restiamo sconvolte nel leggere il referto.
J. ha un grave ipotiroidismo, talmente grave da farci stupire che riesca a stare in piedi.
Il suo TSH (preoccupante sopra a 9-10) sta a 97. Novanta-sette! E l’ormone tiroideo sta a zero, precisamente 0,4. È pericoloso, perché i sintomi non sempre corrispondono alla gravità del quadro ormonale, che potrebbe peggiorare fino al coma senza tanti allarmi.
Nel momento in cui spieghiamo la diagnosi, cercando di farne capire la serietà, la risposta del marito di J. ci lascia a bocca aperta: “Ah, la tiroide? Sì, lei aveva avuto problemi di tiroide la seconda volta che era incinta.”
Si scoperchia uno scenario inaspettato: anni fa, durante la seconda gravidanza, si era slatentizzato un ipotiroidismo, e la ginecologa aveva prescritto la terapia. Tuttavia, dopo aver finito la prima scatola di medicine non le hanno più ricomprate, perché, secondo loro, la dottoressa non gliel’aveva detto (o fatto capire) che J. avrebbe dovuto continuare a prenderle. Addirittura, nel suo fascicolo elettronico troviamo un’esenzione per ipotiroidismo di cui non ci avevano detto nulla…
Siamo senza parole.
Non è la prima volta, e non sarà neanche l’ultima, che succede una cosa del genere: moltissimi pazienti stranieri hanno la convinzione che la malattia sia una questione temporanea, e che la medicina sia la soluzione che risolve il problema (acuto) di oggi. La cronicità delle patologie è un concetto estraneo, tanto che quando sottolineiamo che J. non dovrà mai più smettere la terapia e che dovrà prendere questi farmaci per tutta la vita, cadono dalle nuvole estremamente sorpresi.
È chiaro che questa mancanza sia solo parzialmente loro responsabilità, e in gran parte legata all’ingenuità e alla scarsa istruzione sanitaria.
J. e il marito escono dall’ambulatorio con la ricetta e l’ordine ferreo di acquistare subito la medicina e di prenderla ogni giorno senza errori o dimenticanze, mentre nella stanza resta un’atmosfera di silenziosa rassegnazione.
Il lavoro allo Sportello Sanitario è anche questo: cercare di ridurre le disuguaglianze sociali e garantire alle persone, con i mezzi e gli strumenti che noi e loro abbiamo a disposizione, l’equità e le cure che tutte e tutti meritano.
E nonostante tutti gli sforzi, dopo un mese di terapia, il marito telefona in ambulatorio per chiedere se la moglie “deve prendere ancora quella pasticca”…
Non si può mai abbassare la guardia, ma non ci arrendiamo.
J. la stiamo rimettendo a posto, avanti il prossimo!
A cura della dott.ssa Luisa Perfetto