Storia di Bakul, uomo eritreo di 35 anni
Da bambino vivevo vicino alla città di Cheren, in un paese di campagna con mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Prima dello scoppio della guerra, l’Eritrea era colonia italiana, dal 1890 fino al 1942, anno in cui è iniziata l’occupazione etiope durata quasi trent’anni. Nel 1991, gli etiopi sono stati cacciati e nel 1998 è iniziata un’altra guerra contro l’Etiopia finita nel 2001. Durante la prima guerra contro l’occupazione etiope, nel 1989, con mio padre, mia madre e mia sorella abbiamo deciso di lasciare il Paese per andare in Sudan. Gli altri fratelli e sorelle sono rimasti in Eritrea con dei nostri parenti. Mia sorella maggiore ha deciso di rimanere in Eritrea in una zona più tranquilla. Noi non siamo rimasti con lei perché c’erano i militari etiopi che non ci lasciavano passare.
Dopo la morte di mia madre in un incidente stradale, sono rimasto in Sudan con mia sorella e mio padre. Lui lavorava come agricoltore mentre io e mia sorella di dieci anni andavamo a scuola. Siamo rimasti in Sudan fino al 1991, quando avevo all’incirca otto anni e abbiamo deciso di tornare nella mia città in Eritrea, dove però non si stava bene, a causa della guerra e dei numerosi conflitti. Così io, mio fratello maggiore e mia sorella, siamo tornati in Sudan, mentre mio padre ha deciso di rimanere. Mia sorella poi, nel 1996, è tornata in Eritrea, invece io sono rimasto altri cinque anni, ho concluso la scuola e sono tornato solo nel 2001, per aiutare mio padre. Però lui non voleva che rimanessi perché credeva che, se fossi rimasto, mi avrebbero costretto ad arruolarmi come militare. Perciò, all’età di ventitré anni, sono ritornato in Sudan dove ho preso il diploma e ho iniziato a lavorare. La situazione però non era sostenibile, dovevo aiutare la famiglia ma il lavoro non era sufficiente per mantenere tutti. Così, nel 2006, ho deciso di partire per l’Italia ed eventualmente provare a raggiungere l’Inghilterra.
Per arrivare in Libia ho pagato ai trafficanti 1700 dollari. Siamo partiti il 6 giugno, eravamo quaranta persone, ammassati uno sopra l’altro dentro una camionetta. È stato un viaggio terribile, faceva caldo e non ci davano da bere. Alcuni stavano molto male. Noi avevamo portato dell’acqua ma non era abbastanza per il viaggio e i trafficanti non ce ne davano a sufficienza. Abbiamo sbagliato strada e per questo motivo il viaggio è durato più di due settimane, cinque giorni più del previsto. Arrivati a Tripoli ho pagato altri 900 dollari per il viaggio verso l’Italia. Ne volevano 1500 ma sono riuscito a contrattare. Mi hanno rinchiuso in una casa per dieci giorni, aspettando che le condizioni del mare permettessero di partire. La barca era molto piccola, lunga 3 metri ma ci stavamo in una trentina di persone. Agli scafisti non importava se qualcuno moriva. Il 24 giugno 2006 siamo riusciti ad arrivare a Lampedusa tutti vivi, per fortuna. Appena arrivati ci hanno soccorso e portati nei vari ospedali perché eravamo tutti malati e pieni di infezioni alla pelle. Io ho avuto la scabbia per almeno due mesi, non riuscivo a farla guarire. Mi hanno medicato e mi hanno dato vestiti nuovi. Con l’aereo, poi, mi hanno portato a Crotone dove sono rimasto per quaranta giorni e dove sono riuscito a ottenere il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria. Era agosto del 2006 quando, con soli 40 euro, sono arrivato a Roma direttamente al Palazzo Selam.
Non mi piaceva Selam. Era un ambiente brutto, più di mille persone e tutti i piani erano occupati. I ragazzi si ubriacavano e la notte c’erano risse e liti. Action (Movimento di lotta per la casa) gestiva le entrate e le uscite dall’occupazione e a me hanno consentito l’accesso subito. Andavo spesso al centro Caritas per mangiare. Sono rimasto per due settimane a Selam fino a quando sono andato in un centro di accoglienza a Casalotti dove mi hanno offerto, per sei mesi, la possibilità di dormire. Terminati i sei mesi di accoglienza al centro sono tornato a Selam. Nel frattempo provavo a cercare lavoro anche se parlavo poco italiano. Ho trovato un posto come operaio, per cinque anni, finché non mi hanno messo in cassa integrazione per un altro anno e mezzo e poi è finita anche quella. Ho iniziato a lavorare in nero in una bancarella di altre persone e anche a palazzo Selam dove avevo un piccolo negozio di alimentari.
Sono stato in Svezia per una settimana, per cercare lavoro ma non sono riuscito a trovare niente e non mi è piaciuto il Paese, faceva troppo freddo e anche se era estate c’era poco sole. Ho provato anche ad andare una settimana in Francia nel 2009, ma sono tornato perché non faceva per me.
Nel 2011 ho partecipato a due maratone di Roma da 20 km a febbraio e da 40 km a marzo, entrambe le volte mi sono piazzato bene.
Tutte le mattine mi sveglio alle 6, leggo il giornale, quello che danno in metropolitana, e vado a cercare lavoro. Mi piacerebbe lavorare in un forno o come operaio. So portare bene la gru! Da poco ho incominciato anche la scuola di italiano, imparo la lingua anche guardando la televisione o utilizzando dei corsi su YouTube. Attualmente non lavoro e abito ancora a Selam insieme ad oltre 600 persone di quattro nazionalità diverse: Eritrea, Etiopia, Sudan e Somalia. Le religioni praticate sono quella musulmana e quella cristiana. Ci vivono per lo più uomini e ci sono una trentina di bambini ma non abbiamo spazi in cui farli giocare. Ogni nazionalità è rappresentata dal membro di un comitato che ha il compito di gestire i rapporti tra le persone dei diversi paesi. Nel comitato ci dovrebbero essere dodici persone, tre rappresentanti per ogni paese. Ora però siamo rimasti in quattro, gli altri sono andati via per motivi di lavoro. Per decidere le cose importanti facciamo le assemblee con le persone che vivono nel palazzo. Le assemblee si fanno nella stanza grande al piano terra davanti all’ambulatorio, vi partecipano più o meno 200 persone.
Oggi Selam è cambiato. L’ambiente è più calmo, ci sono più persone che lavorano e conoscono le leggi. Ora, rispetto a prima, la situazione è migliorata però è comunque molto difficile viverci. C’è un bagno per dieci persone con una sola lavatrice all’interno e questo crea spesso litigi. Le stanze sono molto piccole e in ognuna di esse vivono almeno tre persone. Io abito con un ragazzo ma ora lui lavora fuori e quando torna cerchiamo di aiutarci a vicenda. Nella camera ho un lavandino per lavare le mani e i piatti e per cucinare uso la bombola e una piccola macchina del gas. Primo usavo la piastra elettrica ma saltava troppo spesso la corrente e l’ho tolta.
Nel palazzo c’è un ristorante e un negozio di alimentari. Con il ricavato del ristorante si comprano le cose per fare le pulizie, c’è una persona pagata che se ne occupa.
Ci sono degli spazi che utilizziamo per stare insieme e per celebrare matrimoni o anche riti funebri. Mi sento a casa quando sono a Selam ma noi vorremmo una casa popolare e un lavoro. Io in particolar modo vorrei trovare una stanza in affitto. Oggi so che gli italiani non stanno bene ma noi stranieri stiamo molto peggio. Ora in Eritrea non si sta bene, non c’è un governo giusto e non si sono mai svolte elezioni, e devi stare attento a non finire in galera perché se ci entri non ne esci più. Se la situazione fosse migliore tornerei subito, anche oggi! Mio padre è morto nel 2015, ma sento spesso la mia famiglia. Mio fratello è in Sud-Arabia, un altro sta in Calabria e le mie tre sorelle, tutte sposate, sono in Eritrea. Ci parlo più di una volta a settimana anche se la linea non funzione bene. Prima, quando lavoravo, inviavo loro anche un po’ di soldi ma ora non me lo posso più permettere.