Le barriere invisibili nell’emergenza sanitaria del Covid-19
Lo sportello sanitario dell’Associazione Cittadini del Mondo, durante la “seconda ondata” della pandemia di Covid-19, continua a essere in prima linea nella riduzione del rischio di infezione e nel contenimento della diffusione del virus tra le fasce più vulnerabili della popolazione, mettendo in atto procedure basate sull’evidenza e sulla buona prassi, coerenti con la normativa vigente.
Attualmente il nostro sportello opera esclusivamente all’interno dello studio di medicina generale della dottoressa Donatella D’Angelo, dove da anni diamo assistenza a diverse comunità straniere presenti sul territorio del VII Municipio.
Di fronte all’emergenza sanitaria abbiamo attuato una serie di cambiamenti sia strutturali dell’ambulatorio che operativi nella gestione delle procedure d’accesso e di monitoraggio dei pazienti, in linea con i programmi di adeguamento e innovazione previsti dalle norme vigenti. Tutto nel rispetto delle misure di distanziamento sociale e di sicurezza sanitaria:
- adeguata aerazione dei locali;
- implementazione dei dispositivi di igienizzazione del personale sanitario e dell’utenza;
- protezione mediante DPI e barriere in plexiglass;
- accesso contingentato dell’utenza che viene accolta solo previo appuntamento;
- adozione di nuovi strumenti, e implementazione di quelli preesistenti, riguardanti la comunicazione medico-paziente “a distanza”.
Tali misure di contenimento e controllo, da una parte agevolano le procedure sanitarie consistenti nell’identificazione precoce dei casi e dei contatti, nel trattamento, nell’isolamento e nella sorveglianza attiva, aumentando la possibilità di interrompere sul nascere potenziali catene di trasmissione. Inoltre, rispetto alla prima ondata, le maggiori conoscenze sul decorso della malattia, come anche la riduzione dell’intervallo di tempo tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi/isolamento, costituiscono armi preziose nel contrasto della pandemia. D’altra parte, la piena efficacia di tali interventi è strettamente legata all’adeguamento contestuale e reciproco degli operatori sanitari e dell’utenza al nuovo scenario.
Una delle maggiori difficoltà che riscontriamo riguarda il livello di digitalizzazione dei pazienti, che determina una radicale trasformazione dei comportamenti e delle abitudini nella relazione col proprio medico. I motivi sottesi a tale stallo comunicativo riflettono importanti barriere culturali e linguistiche e sono diversi per:
- incapacità di familiarizzare con strumenti tecnologici;
- difficoltà nell’accettare un rapporto sempre meno faccia a faccia col proprio medico;
- differenze linguistiche.
Quest’ultimo fattore è tra i pazienti stranieri la difficoltà principale che richiede strategie comunicative orientate alle differenti comunità, come la mediazione linguistico-culturale e l’utilizzo di strumenti di traduzione creati ad hoc.
Esiste un problema di accessibilità delle informazioni ed è aggravato dalla difficoltà di raggiungere i migranti, da parte delle politiche di prevenzione, in quanto spesso sfuggono ai flussi informativi correnti. Inoltre, un problema di accessibilità delle informazioni legato a una difficoltosa familiarizzazione con un linguaggio tecnico ai più sconosciuto. Va segnalato, inoltre, che l’utenza straniera che si rivolge al nostro sportello sanitario è variegata e comprende sia persone che si sono inserite nel mercato del lavoro e vivono in un normale contesto abitativo sia persone ad elevata fragilità che, invece, vivono in condizioni di marginalità. Le esistenti diseguaglianze sociali si fanno più evidenti durante la pandemia assistendo a risposte eterogenee delle persone di fronte all’emergenza sanitaria potendo attingere a risorse materiali, sociali, culturali e psicologiche disegualmente distribuite e determinate dal loro status sociale.
A seguire, a titolo esplicativo di tali difficoltà e barriere, una rapida panoramica di situazioni e risposte che osserviamo a sportello.
N.Z., uomo, bangladese. Si presenta a studio senza appuntamento il giorno prima della partenza verso il suo paese di origine per mostrare a noi medici i risultati degli esami da poco eseguiti. L’esame in questione era il tampone rapido per l’identificazione del Covid-19 e il paziente risultava positivo. Non aveva capito l’esito del suo esame, non era riuscito ad accedere alla piattaforma per inviarci tale esito, non aveva la percezione del rischio di contagio. Oltre alla barriera linguistica, abbiamo osservato che il linguaggio utilizzato negli esiti dei tamponi, rilevato/non rilevato, genera dubbi di interpretazione del risultato persino tra la popolazione italiana.
J.K., donna, bangladese. Si rivolge al nostro sportello per dolori alla schiena e alla spalla, ci riferisce che il marito qualche giorno prima era stato dimesso dall’ospedale in seguito a un ictus cerebrale. Il livello di italiano è basso, frequentava la nostra scuola di italiano ma dopo il Covid-19 lo ha interrotto perché non è riuscita a iscriversi in tempo al corso on-line, perché ha poca familiarità con internet e la tecnologia. Esce poco di casa, nega di aver avuto contatti con persone risultate positive al Covid-19. Le proponiamo di fare il test sierologico per ragioni di screening e monitoraggio epidemiologico della popolazione più fragile. La sua risposta è stata: “Non c’è bisogno, io ho già fatto il tampone a giugno”.
G.A., uomo, bangladese. Lavora da anni a Roma, parla italiano fluentemente, ha sempre mostrato un atteggiamento proattivo e adattativo. Dopo il Covid-19 ha avuto episodi di dolore stenocardico per cui eseguiva gli accertamenti diagnostici prescritti. Il risultato escludeva patologie cardiache. Durante il colloquio emergeva invece uno stato ansioso di nuova insorgenza, legato agli eventi correlati al Covid-19. Ci racconta: “Io voglio tornare in Bangladesh, nella mia casa in campagna, lontano dalla città, a vivere tranquillo”.
R.A., donna, eritrea, abitante di Palazzo Selam da dieci anni. Nonostante i numerosi anni in Italia la sua conoscenza della lingua italiana è scarsa. Persona molto religiosa, osservante cristiana ortodossa. Ha sempre lavorato assistendo persone anziane non autosufficienti. Ci riferisce che non è mai uscita di casa se non per andare a lavoro e per partecipare alle celebrazioni della sua comunità religiosa. Ha perso il lavoro a causa del Covid-19 in quanto si è contagiata e ha portato il virus all’interno della famiglia presso cui prestava servizio. Lei sta bene ma il signore anziano che assisteva non ce l’ha fatta.
A.I. e A.M., uomini, somali, non ancora trentenni, abitanti di Palazzo Selam. Entrambi affetti da tubercolosi, uno in forma latente, l’altro in forma disseminata e per di più risultato positivo al Covid-19, dimesso dall’ospedale a seguito della negativizzazione del tampone. Il primo ci riferisce che “Palazzo Selam è un covo di germi”, il secondo parla a mala pena e non riusciamo a interpretare quanto sia consapevole del rischio legato alla comorbidità tubercolosi-coronavirus. Entrambi mostrano un atteggiamento di impotenza e rassegnazione davanti agli eventi legati al diffondersi della pandemia.
T.K., uomo, eritreo. Abitava a Palazzo Selam, ci contatta telefonicamente per riferirci che si trova a Milano ospite a casa di amici perché non vuole tornare a Palazzo Selam per paura dei contagi all’interno del palazzo. Si rende conto che la struttura rappresenta di per sé un alto rischio di diffusione del contagio per le sue caratteristiche di sovraffollamento e di scarse condizioni igienico-sanitarie.
Emergono barriere, non quelle invisibili di plexiglass che ci proteggono dal virus ma quelle intangibili della comunicazione non efficace che amplificano il senso di isolamento, che coinvolge trasversalmente tutti, ma che può trasformarsi in senso di abbandono per la persona malata. Sono quelle barriere che si innalzano tra le istituzioni e i migranti che, seppur prevedibili e risapute, nel contesto attuale di pandemia assumono caratteristiche di criticità urgenti in termini di salute pubblica con grave pregiudizio per l’azione di contrasto alla pandemia.